Fallimento, il termine stesso scatena ansia, angoscia e insicurezza. Sicuramente per il mercato italiano è così: negli ultimi anni, nonostante una lieve diminuzione del saldo di disoccupazione, bisogna fronteggiare un gran numero di dipendenti, tra i 35 e i 50 anni, confinati ai margini del mercato lavorativo e con scarsissime possibilità di un reinserimento.

Il fallimento, sostanzialmente, è una sconfitta dell’imprenditore e le cause possono essere molteplici: investimenti troppo onerosi che non sono rientrati nel tempo, fallimento della politica commerciale o scarsa liquidità. Tante aziende falliscono, nonostante abbiano crediti, semplicemente perché le loro fatture non vengono onorate.

Quando un creditore presenta istanza di fallimento, i libri contabili finiscono in tribunale, i beni vengono inventariati e si procede con una scrupolosa lista di chi risulta essere creditore dell’azienda in via di fallimento. Viene nominato dal tribunale un curatore fallimentare che ha il ruolo di garante in questa complessa vicenda e successivamente si procede, passo per passo, alla monetizzazione di tutto ciò che è un utile: fatture insolute, beni d’azienda (immobili, auto, computer, strutture, mobili).

Tutto questo andrà all’incanto, ovvero all’asta e i proventi di quest’ultima serviranno a risarcire di quanto dovuto i creditori, primo fra tutti, lo Stato. Dopo che le tasse dovute saranno saldate, verranno corrisposte le spettanze ai dipendenti e, infine, ai creditori. In caso di fallimento, l’azienda cessa di esistere e l’imprenditore affronta conseguenze anche penali per le sue insolvenze, mentre i creditori attendono i conti definitivi; ma qual è il soggetto che paga in un processo di fallimento?

Beh, sicuramente il primo a pagare è l’imprenditore che spesso si ritrova con cartelle esattoriali da saldare per diversi anni, sempre che riesca in qualche modo a ricrearsi un’attività professionale o che le aziende che nascono dal fallimento, ribattezzate New.Co., riportino, a poco a poco, quei crediti necessari a garantire un nuovo start-up e il saldo dei debiti.

I secondi a rimetterci sono quasi sempre dipendenti e creditori che raramente ricevono quanto è loro dovuto: secondo le statistiche, la percentuale di quanto saldato dopo un fallimento non arriva al 50%. L’ultima entità a pagare è lo Statoche spesso perde le tasse dovute e altre volte interviene con fondi speciali – detti ammortizzatori – per sostenere l’impatto di un gran numero di lavoratori rimasti senza occupazione.

Contrariamente a quanto si possa pensare, l’imprenditore fallito spesso ha la possibilità di rilanciarsi. Oggi esistono agenzie come Creditreform o Moneyhouse che analizzano e registrano l’insolvenza delle persone; ma, una volta usciti dal libro nero, si può ripartire, magari con un socio economicamente forte. Il fallimento, purtroppo, è oggi un rischio del fare impresa: a volte punisce gli errori, altre volte li corregge. In ogni caso è indubbio che, nell’immaginario collettivo dell’impresa italiana, il fallimento sia spesso una macchia indelebile.